La prostata: una storia di secoli
di Maurizio Candidi
La prostata – al giorno d’oggi continuo oggetto di trattazione, persino sui periodici e alla televisione – è stata per lungo tempo poco considerata in medicina, e complesso è stato il percorso che la scienza ha dovuto compiere per arrivare alla sua identificazione in termini anatomici e alla comprensione delle sue funzioni.
«Quando un malato urina sangue e grumi, soffre di stranguria e ha dolori all’ipogastrio e al perineo, ciò vuol dire che ha qualche affezione del collo vescicale».
Ippocrate, come riportato in questo passaggio tratto dal suo Corpus Hippocraticum, aveva intuito il collegamento tra il collo vescicale e la ritenzione urinaria, e che quindi in talune situazioni di disturbi minzionali la causa potesse essere ostruttiva, ma in realtà ignorava l’esistenza della ghiandola prostatica. Bisogna ricordare che il sommo padre della Medicina, nel suo giuramento, impediva ai medici di eseguire la litotomia – procedura ritenuta dolorosa e pericolosa, e consistente nel raggiungere la vescica attraverso incisioni perineali, transrettali o ipogastriche con successive estrazioni dei calcoli, se presenti, con primitive pinze di ferro – lasciando così il campo ai ‘barbieri-incisori’ che osavano farlo e la cui pratica rimase in auge fino a tutto il Medioevo, fino al XVII secolo.
Nella civiltà egizia si ritrova solo qualche accenno alla prostata, mentre sembra essere stato Erofilo, attorno al 300 a.C., ad averne descritto l’anatomia. Osservò infatti due formazioni distinte – prostatai adenoides – con riferimento alla posizione anteriore, pro, rispetto alla vescica (anche se forse confuse la prostata con le vescicole seminali, visto che conduceva i suoi studi sulle scimmie, che hanno una prostata bifida).
Nel I secolo d.C., Aulo C. Celso, poneva l’attenzione sui calcoli vescicali quali responsabili della ritenzione, piuttosto che sull’ipertrofia della ghiandola, mentre Galeno lasciava forse intravvedere un riferimento all’ingrossamento della prostata, quando parlava di una ‘escrescenza carnosa e callosa’ che ostruiva il canale uretrale.
Col passare dei secoli si cercò di risolvere il problema della ritenzione dilatando l’uretra con primitivi e dolorosi cateteri, senza cercare di capire la vera causa della stessa (secoli bui della medicina). Si giunse quindi al 1500, quando il veneziano Massa e a seguire Vesalio (medico dei Paesi Bassi che insegnò a Padova) si riferirono alla ghiandola nella stessa maniera di Erofilo. Altri medici illustri furono poi Bartholin, che parlò di «due tubercoli grossi come testicoli che la sonda sposta e che riprendono il loro posto quando la si retrae» fino a giungere all’olandese De Graaf (colui che scoprì i follicoli ovarici), che descrisse per primo la struttura anatomo-fisiologica della ghiandola prostatica.
Arriviamo quindi al XVII secolo con G.B. Morgagni che parla specificatamente di ‘rigonfiamento della prostata’. Nella descrizione del referto autoptico di un uomo di 70 anni morto per uremia, il grande medico forlivese annota infatti
«le fibre della vescica così aumentate da somigliare ai robusti fasci di fibre del cuore, mentre una escrescenza carnosa a forma di una pera, la prostata, lascia scarsamente libero il passaggio dell’urina…»
Nel XIX secolo si giunse alla ‘scoperta’ del terzo lobo prostatico, il lobo mediano. Il chirurgo sir E. Home, in una comunicazione alla Royal Society di Londra, identificò nel terzo lobo una causa frequente di ritenzione urinaria. Giunti alla fine dell’800 (Desault, Chopart), si arrivò alla prima distinzione su base etiologica della ritenzione in due gruppi: ritenzione dovuta a paralisi della vescica; ritenzione dovuta ad ostacolo meccanico, prostatico, al libero deflusso dell’urina, e prodotto dall’età avanzata. Sempre nell’800 si inizia anche a pensare, oltre che all’inquadramento diagnostico, anche a qualche possibile metodo efficace di trattamento. La semeiotica della ghiandola era a quel tempo basata sull’esplorazione rettale e sul cateterismo esplorativo. L’ER venne in realtà usata piuttosto di rado fino all’introduzione del ‘dito di gomma’ – a causa della riluttanza all’introduzione del dito nudo nel retto del paziente (!) – mentre il cateterismo era più praticato, anche se poteva provocare, in mani inesperte, non poche complicanze – emorragie, infezioni – a volte anche gravi.
All’inizio del XX secolo ci furono ulteriori passi in avanti allorché iniziarono gli studi istologici dei tessuti asportati nel corso delle prime prostatectomie. L’esplosione delle conoscenze si è avuta poi a partire dagli anni ’40 del Novecento, quando vari studiosi dimostrarono che l’ipertrofia si forma a carico delle ghiandole centrali periuretrali e dello stroma circostante (la prostata caudale o centrale descritta da G. Vernet) e in seguito quando Huggins e Stevens dimostrarono che l’epitelio prostatico va incontro ad atrofia entro tre mesi dalla castrazione, dimostrando quindi il ruolo effettivo degli androgeni nella fisiopatologia prostatica.
La ‘tortura’ del cateterismo nella storia
Il modo più ovvio per disostruire il canale uretrale parve subito, sin dall’antichità, quello di introdurre una sonda nell’uretra, che ne allargasse il lume. L’uso del cateterismo è testimoniato da documenti antichissimi (Mesopotamia, 3000 a.C.). Nei secoli successivi le sonde uretrali sembrarono cadere in disuso visto che nel Corpus Hippocraticum non se ne fa menzione. Esemplari di cateteri in ferro e bronzo furono rinvenuti negli scavi di Pompei nel 1819, nella famosa Casa del Chirurgo e risalenti all’anno 50 d.C.
Dioscoride, nel I sec d.C., ideò un metodo di dilatazione piuttosto originale, che consisteva nel far risalire dal meato uretrale delle cimici vive, con conseguenti contrazioni violente e decontrazioni del collo vescicale e successiva facilitata minzione. Questo metodo resistette nei secoli ed era ancora in auge ai tempi del Re Sole (!). Sempre nel I secolo, Aulo Cornelio Celso nel De Re Medica già descriveva secondo canoni ‘moderni’ il cateterismo uretrale, con sonde ricurve anteriormente e fissurate lateralmente con lunghezza proporzionale alla corporatura e al sesso del paziente. Nel 400 d.C si inizia a far menzione di cateterismi delle stenosi uretrali che utilizzavano cateteri a dimora di penna d’oca per qualche giorno per poi sostituirli con sottili cateteri di bronzo (Oribasio).
Per tutto il Medioevo fino al Rinascimento, queste sonde rigide continuarono ad essere impiegate, a volte con manovre indaginose, non esenti da pericoli e spesso causa di gravi complicanze. «Per cateterizzare con facilità e con minor dolore bisogna che la curvatura della sonda sia uguale a quella dell’uretra» scriveva J.Petit la cui sonda, come quelle ritrovate a Pompei, presentava infatti una doppia curvatura.
Grazie all’introduzione nell’uso comune della gomma elastica furono finalmente fabbricate nel 1700 delle sonde flessibili, tappa questa fondamentale nella storia dell’urologia. Nei primi anni dell’800 sorsero una serie di tecniche di dilatazione dell’uretra e di compressione (dei lobi prostatici), atte a facilitare il cateterismo.
Si va dalla tecnica di Physick di Filadelfia (1815), che concepì un catetere dotato di un palloncino (fatto di intestino crasso di bue) che dilatava l’uretra e comprimeva i lobi prostatici, riducendone le dimensioni, a quella di Mercier che usava un catetere molle e flessibile con all’interno un filo metallico rigido per raddrizzare la curvatura dell’uretra e comprimere la prostata.
La scoperta del processo di vulcanizzazione (Goodyear, 1844) consentì a Nelaton di realizzare una sonda – la sonda di Nelaton – che permise ai pazienti prostatici di evitare finalmente le crudeli manovre con sonde metalliche di chirurghi e praticoni. I nuovi modelli di sonde flessibili ridussero progressivamente le difficoltà e le complicanze del cateterismo.
All’inizio del secolo i vecchi prostatici si inserivano da soli sonde e cateteri (che tiravano fuori da tasche dei cappotti e fodere di cappelli!), bagnandoli con acqua o saliva e infischiandosene delle possibili complicanze infettive che erano ovviamente legate ad una metodica non sterile. Solo dopo l’introduzione di sulfamidici ed antibiotici in terapia fu possibile controllare questa temibile complicanza.
A cavallo della Seconda Guerra Mondiale vennero introdotte le moderne sonde in materiali sintetici, lattice e silicone, tuttora in uso. Negli anni ’30 del Novecento un urologo americano di origine tedesca, il dottor Frederick Foley, inventò il catetere che porta il suo nome. L’industriale americano C. Russel Bard ne acquistò il brevetto e nel 1934 produsse a Providence, nel Rhode Island, il primo catetere vescicale in gomma con palloncino al mondo: fu un enorme successo, la sua flessibilità ed elasticità permettevano un grande comfort al paziente e ne facilitarono la diffusione.