La tecnica è più debole del destino
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La tecnica è più debole del destino

LegalMente

di Alessandro Mattoni

 

Divagazioni sul tema della responsabilità medica

Fra il fisiologico e il patologico si sviluppa l’arte del medico: ‘arte’ pericolosa – così ritenuta in ambito giuridico – ma ciò non di meno consentita, anzi auspicata, anzi ritenuta di alto valore a misura dell’importanza attribuita alla salute, quale bene costituzionalmente protetto. Sembra esserci in ciò – nel considerare pericolosa un’attività altamente finalizzata – un’evidente contraddizione: come può una pratica salvifica, volta al benessere delle persone, considerarsi in pari tempo fonte di pericolo, tanto da formare oggetto di sempre più dettagliata regolamentazione normativa in vista proprio dei pregiudizi che dal suo esercizio possono derivare?

La tecnica è più debole del destino

(Fig. 1 – Promētheús e l’Aetós Kaukasíos (560 – 550 a.C.). Kylix laconico, attribuito al Pittore di Naucrati. Musée du Louvre, Parigi)

La spiegazione è remota e si perde nel mito di Prometeo (Fig. 1), colui che prevede e che, servendosi della tecnica, pretenderebbe così di sottrarre l’uomo dalle fauci della morte, quale ineludibile destino, con ciò stesso macchiandosi di una grave colpa sacrilega che lo esporrà all’eterno supplizio. Peccato di grave smisuratezza, quello del titano, giacché, come sentenzierà Eschilo nell’omonima tragedia dedicata a Prometeo, «la techne è infinitamente più debole del destino». La tecnica applicata alla cura della persona quindi, se per un verso ne favorisce il formarsi di illusioni salvifiche – tanto più elevate quanto più elevata è l’altezza raggiunta dalla tecnica nel suo sviluppo – dall’altra disvela i suoi limiti di fronte alla condizione mortale, verso cui l’essere umano è destinato.

La premessa mitologica – giocosa e ironica ad un tempo – serve comunque a spiegare ad un livello di inconscio personale e collettivo la tensione che da sempre caratterizza la relazione tra l’attività del medico, con le connesse aspettative salvifiche, e gli esiti da ciò derivanti che, per altro verso, non sempre collimano con le speranze dei pazienti.

Al presente, con un salto di secoli dal periodo mitico, tra il medico e il paziente viene del tutto prosaicamente ad instaurarsi un rapporto speciale che, sebbene non configuri un contratto – si pensi ai casi del ricovero ospedaliero in occasione del quale non si sa quale sarà il medico curante – determina l’insorgere di un contatto sociale qualificato che è fonte, similmente al contratto, di obblighi prestazionali del medico verso l’assistito. Su tale legame sui generis si è lungamente adagiato, in campo civilistico, l’aspetto qualificatorio della responsabilità del medico, considerandola responsabilità da contratto, con preferenza sulla qualificazione in termini di responsabilità extracontrattuale, diversamente disciplinata.

Infatti nel primo tipo di responsabilità – quella contrattuale – al paziente compete solo di richiamarsi alla sussistenza della relazione terapeutica instaurata con il medico e con la struttura di appartenenza; spetterà poi al medico stesso di dimostrare in giudizio l’assenza di eventuali profili di colpa ad egli addebitabili, in ordine all’evento avverso. Si configura così una situazione di indubbio vantaggio per il paziente, usualmente considerato dalla giurisprudenza quale soggetto debole della relazione, sul quale sarebbe improprio far gravare l’onere di dimostrare la colpa del medico. Da ciò, in estrema sintesi, la scelta ermeneutica della giurisprudenza civile di contrattualizzarne, nella forma del quasi contratto di cui si è appena detto, la posizione con il medico. Per il vero, le più recenti riforme legislative – sollecitate da ambienti medici – si sono andate indirizzando verso il superamento di tale visione ricostruttiva della relazione medico-paziente, orientandone la responsabilità verso il modello della responsabilità extracontrattuale; implicante quest’ultima l’onere, posto a carico del paziente, di dimostrare al giudice la responsabilità del medico in ordine all’evento avverso e non più semplicemente la mera sussistenza della relazione sanitaria presupposta.

La tecnica è più debole del destino

(Fig. 2)

Derivano da ciò ulteriori svantaggi per il paziente – con i correlativi vantaggi del medico – atteso che, così ragionando, il termine prescrizionale entro cui esercitare il relativo diritto al risarcimento è previsto in cinque anni per la responsabilità extracontrattuale laddove, per la responsabilità contrattuale, tale termine è di dieci anni.

Va però detto che la non perfetta formulazione delle novelle normative non ha prodotto un risultato univoco sul piano dell’interpretazione giurisprudenziale più recente che si mantiene fortemente oscillante fra le diverse opzioni già richiamate. La questione resta quindi pendente ed è ragionevole pensare che continuerà ancora a lungo nella tensione, irrisolta nei secoli, tra l’umana condizione mortale e la tecnica: peccato che stavolta ci siano di mezzo i medici!

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