In quarantena con il Covid
di Gloria Taliani
Ad oggi, 4 maggio 2020, sono passati 73 giorni. Il 21 Febbraio era appena iniziato quando, a poche ore dalla mezzanotte, si è venuti a sapere in modo ufficiale che un paziente di 38 anni è stato ricoverato nell’ospedale di Codogno in provincia di Lodi, ad una manciata di chilometri da Piacenza, con una polmonite che lo lascia praticamente senza respiro. Il tampone per SARS-CoV-2 è positivo, dunque ufficialmente anche in Italia è approdato il primo caso autoctono di questa nuova, oscura, temuta malattia: COVID-19.
Alla sera di quel giorno saranno 15 i pazienti COVID-19 in Lombardia e si scoprirà che c’è anche un focolaio acceso a Vo’ Euganeo in provincia di Padova. E sempre a Padova, nella stessa giornata, arriva anche il primo decesso per COVID-19: un uomo di 78 anni.
L’epidemia COVID è così iniziata ufficialmente in Italia, a 10 giorni dalla data del “battesimo” – da parte dell’OMS – del nuovo virus (SARS-CoV-2) e della nuova malattia (COVID-19).
Da questo momento, con stupore ma anche con una certa dose di rassegnazione, inizierà la rincorsa dei decreti, delle relative sanzioni ai trasgressori, delle immagini contrastanti sui teleschermi di tutto il Paese che mostrano da una parte le strade innaturalmente deserte di piccole e grandi città del nord, e dall’altra parte una serata in strada nei quartieri della movida notturna di Roma e di Napoli, con giovani che inneggiano alla prossimità e alla libertà di abbracciarsi, forti della consapevolezza che questa malattia è una cosa per vecchi e loro, spavaldi e invincibili, non ne sono per niente spaventati.
A soli 4 giorni dal fatidico 21 febbraio, dopo che i primi 11 comuni nel lodigiano e il comune di Vo’ vengono blindati, con divieto di sconfinamento in entrata e in uscita, i casi di infezione accertata sono 328 ed i deceduti 11. Non è un’espansione esplosiva, ma nei numeri sono contenuti già i segnali di allerta che caratterizzeranno i giorni e le settimane a venire.
Subito dopo si estendono le misure di cautela, e anche l’Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte e la Liguria si aggiungono al perimetro dei confinati con divieto di sconfinamento.
Ma non è ancora sufficiente. Si fatica a immaginare cosa sia un mondo senza le attività quotidiane, e questa fatica appare insostenibile soprattutto al Premier, che intuisce l’eccezionalità del momento ma azzarda alcuni atti di imperio che, a guardarli a ritroso, sembrano timidi ed esplorativi. Ben altri ne seguiranno, più intrusivi e categorici, ma per il momento si decide di chiudere le scuole di ogni ordine e grado fino alle università. Da questo momento i bambini ed i ragazzi esultano, sperimentando la gioia di essere a lungo assenti giustificati, anche se non esattamente in vacanza, e per i genitori fa capolino lo smart-working, almeno per coloro che possono. E mentre una parte del paese soffre in silenzio per l’assalto agli ospedali, lì dove i medici e gli infermieri perdono il sonno e la ragione accanto alla crescente marea dei pazienti senza respiro che affollano le sale d’attesa dei pronto-soccorsi, in altre realtà questa sospensione generalizzata dall’ordinario viene vissuta come un diversivo alla routine e l’occasione per sperimentare forme di lavoro coniugate strettamente alla vita domestica. Nulla è equo a questo mondo.
E compaiono le prime stravaganze normative, che poi diventeranno spunto per vignette, scherzi, e battute di ogni genere, riferite alla forte restrizione di attività svolte in teatri, cinema e nel corso di manifestazioni varie. Però le restrizioni non sono obbligatorie…. sono raccomandate, consigliate… forse si, ma anche forse no…. a patto che si possa stare lontani un metro gli uni dagli altri. Tutto è indeterminato, difficile da determinare. La Cina è lontana, Il Lock-down lo sembra. Ed ecco che inaspettatamente, nella serata del 7 marzo, alla fine di un sabato di blanda preoccupazione, le persone che guardavano un po’ annoiate i telegiornali della sera hanno visto con stupore e una punta di angoscia, una massa di persone temporaneamente residenti al Nord, riversarsi nelle stazioni all’assalto dei treni diretti al Sud alla soffiata proditoria che dal giorno successivo sarebbe scattato il divieto assoluto di spostamenti interregionali. Ennesima stravaganza di un Paese allergico alle regole e aduso alle eccezioni. Ma subito dopo, con uno scatto di ritrovato orgoglio, il premier Conte emanerà un decreto intitolato “Io resto a casa” in base alle cui regole tutti quelli che non DEVONO proprio uscire, DEVONO proprio stare a casa…. Semplice, efficace, convincente.
Inizia una lunga fase di reclusione, con le inevitabili perplessità del giorno prima che oggi, quando finalmente la reclusione si è allentata, tutti guardiamo con il compiacimento di chi – voltandosi all’indietro – scopre che in un modo o in quell’altro è arrivato sano e intero dalla parte opposta: ha superato il guado, ha scalato la cima, insomma, ha attraversato un passaggio difficile e pericoloso.
Però sul primo momento quanta incertezza, mentre i morti salivano, i camion con le tante salme sfilavano cupi attraverso strade secondarie delle città più colpite per non turbare i vivi, il lavoro languiva, le parole di speranza volavano leggere e fragranti, i mezzi per la sopravvivenza si facevano sempre più incerti ed i numeri della paura si facevano pressanti: il 19 marzo, giorno in cui in tempi dimenticati le famiglie sedevano a festeggiare il papà, l’Italia scopre con orrore che qui da noi sono morti più malati che in Cina, e a noi questo primato proprio non piace.
Ad oggi con prudenza e con un po’ di paura si tenta la strada della normalizzazione della vita quotidiana. Gli infetti accertati sono 210.717, rispetto ai quali gli 83.965 totalizzati in Cina e che tanto ci fecero spaventare impallidiscono miseramente. Tutti ci domandiamo se quelli cinesi siano numeri veri o solo la punta di un iceberg che non conosceremo mai.
Allo stesso tempo diventa inevitabile sul fatto che quel Grande Paese dall’economia rampante corre indisturbato e inarrivabile, supera in crescita il resto del mondo, eppure ha avuto l’ardire di chiudere fabbriche e scuole e uffici con una perentorietà mai vista. Quel Grande Paese stretto nella morsa dei malati e dei morti ha saputo costruire tre giganteschi ospedali in pochi giorni lasciando sbalordito il resto del mondo. Tuttavia, quel Grande Paese non ha saputo impedire che uomini e animali vivessero in una commistione antica, indisturbata e impensabile per un Grande Paese come quello, senza capire quanto fosse intollerabile per un mondo affollato che tracima indifferente i suoi abitanti da un Continente all’altro, lasciar correre il sangue dei pipistrelli accanto agli zibetti, ai serpenti, ai polli, ai falchi ingabbiati senza pagare il prezzo che la promiscuità impone.
Eppure, in quel Paese che ha lanciato il sasso nello stagno della terra, oggi si festeggia la ritrovata libertà di muoversi, di ballare per le strade, di riprendere una vita che diresti normale se non fosse per quell’ostentato distanziamento sociale, che non è ostilità o ritrosia ma prudenza sanitaria, se non fosse per quella mascherina ostinatamente attaccata al volto, che costringe ad ascoltare le modulazioni della voce dato che manca la plasticità della mimica facciale, se non fosse per quei guanti di gomma che schermano le dita dai contagi del mondo, ma riempiono il mondo di residui di plastica da smaltire nelle ciminiere degli inceneritori.
Sta di fatto che in quel Paese i numeri del contagio, buoni o fasulli che siano, si sono fermati da tempo. Gli ultimi 357 contagiati risalgono al 17 aprile. Poi più nulla. Zero.
In quel giorno in Italia contavamo 3.500 infettati, gli Stati Uniti si spaventavano davanti ai propri 32.100 casi (che fa sembrare insignificante il picco dei 15.100 casi denunciati il 13 febbraio in Cina), la Francia ne misurava 12.500, la Spagna 5.900, la baldanzosa UK ne setacciava 5.900 e la spocchiosa Germania sgrondava i suoi 3.700 casi pensando che, anche questa volta, avrebbe mostrato al mondo come si fa a vincere una guerra, che sia contro un nemico grande e grosso o contro uno piccolino che nemmeno lo vedi.
Intanto che la Cina si rimette velocemente in moto, l’Europa si guarda in cagnesco, non si vuol dare questa mano solidale di cui son pieni i proclami ma che nessuno vede nei fatti.
Ma il mondo va così, lo hanno capito bene anche i bimbi che con un po’ di invidia guardano uscire i cani, felicemente al guinzaglio dei loro padroni, per una passeggiata ristoratrice tre volte al giorno o magari anche di più, se il padrone ne ravvede la necessità e l’urgenza. Ma loro no, non possono uscire. Per loro nessuna passeggiata. “Chissà – pensa sconsolata Federica guardando dalla finestra della sua camera il cane del vicino che scodinzola sul viale e alza la zampetta per fare la pipì contro il platano – potrei farlo anche io. Non mi sembra difficile. Basta stare attenti a non bagnarsi le scarpe, che poi la mamma si arrabbia. Magari è anche divertente. E quando torno a scuola lo racconto alle maestre”.
Oggi, 4 maggio, si apre la fase due di questa ultra-quarantena, che sembra somigliare alla fase uno, solo abbellita con un po’ di rimmel, tanto per nascondere la stanchezza e dar profondità allo sguardo. Ma in queste settimane noi abbiamo imparato un sacco di cose per raccontare le quali tutte ci vorrà ben altro che queste poche righe. Ci serviremo del silenzio e delle parole che nel tempo diventeranno sorrisi e lacrime. Ma è sicuro e definitivo: oggi 4 maggio siamo tutti diversi da come eravamo il 21 febbraio di mille anni fa.