La pressione dei migranti
di Andrea Marcheselli
Sono ormai lontani i tempi in cui la nostra gente si imbarcava su piroscafi in disarmo per ‘cercare fortuna’ in America e approdava, dopo settimane di navigazione e tribolazioni, nella baia di New York, sull’isolotto artificiale di Ellis Island, l’Isola delle Lacrime, antico arsenale militare, che dal 1892 al 1954 divenne il principale punto d’ingresso per milioni di aspiranti cittadini statunitensi.
Dopo aver esibito i documenti di viaggio, i medici controllavano rapidamente lo stato di salute di questi migranti, ‘marchiando’ con un gesso coloro che dovevano essere sottoposti ad ulteriori accertamenti o piuttosto essere rimpatriati qualora affetti da invalidità. Per coloro che venivano ritenuti fisicamente idonei si apriva la porta della sala dei registri, dove venivano acquisite generalità, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, eventuali riferimenti già presenti nel paese e quindi finalmente accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.
Fino agli anni Trenta i flussi migratori si diressero non solo nelle Americhe del Nord (Stati Uniti e Canada) ma anche verso l’America Latina (Argentina, Brasile e Uruguay), motivati dalle ampie disponibilità di terreni colonizzabili e coltivabili, particolarmente adatti per un popolo a vocazione prevalentemente agricola. Negli anni del dopo guerra, invece, i pull factors – i fattori di attrazione – divennero invece le fabbriche della Germania o le miniere del Belgio, dove le condizioni sociali ed economiche dei nostri connazionali non furono certo meno penose di quelle vissute dai loro predecessori migrati oltre oceano.
Al di là della nostra memoria storica e delle condivisibili implicazioni morali, la recente trasformazione del nostro Paese da terra di emigrazione a terra di immigrazione pone l’attenzione su un fenomeno inarrestabile – quello del flusso migratorio – che modificherà non solo il tessuto sociale ma dovrà portare ad un rimodellamento culturale ed a una nuova capacità di comunicazione. Questo complesso scenario dovrà essere fronteggiato necessariamente anche sotto il profilo medico sanitario, stanti le richieste ed i bisogni di assistenza medica di questi nuovi pazienti. Superate infatti tanto l’emergenza del soccorso quanto quella fase, per così dire, di ‘esotismo’ – nella quale il medico considera il paziente straniero come portatore di rare e sconosciute patologie e contestualmente il paziente si convince che il sanitario occidentale non sempre sia depositario di certezze e soluzioni al suo problema – sarà auspicabile una relazione medico-paziente eticamente critica e bilateralmente scevra da pregiudizi.
A conforto del concetto di unicità razziale potremmo invocare la teoria della origine dell’uomo, secondo la quale tutta l’umanità moderna discenderebbe da un singolo gruppo di Homo Sapiens che dall’Africa emigrò negli altri continenti nel corso di millenni – il cosiddetto out of Africa model – rimpiazzando gli ominidi discendenti dall’Homo Erectus. Ma qualsiasi sia stata l’origine e la successiva evoluzione, gli studi epidemiologici e di genetica ci insegnano che popolazioni differenti hanno pool genetici diversi. Il lento adattamento ai diversi fattori ambientali e climatici ha infatti prodotto varianti geniche che hanno permesso alle diverse etnie una migliore sopravvivenza nei loro territori di sviluppo, producendo, senza ipocrisie, una differenza razziale di cui il sistema cardiovascolare è un esempio. Nei soggetti di etnia africana, infatti, l’ipertensione arteriosa è il fattore di rischio maggiore per una prematura morbilità e mortalità, ed a sostegno di questa prevalenza vengono invocati diversi meccanismi ed altrettante teorie. Le varianti dei geni del sistema renina angiotensina (SRA) provocano un abnorme risposta omeostatica al bilancio idrosalino, sviluppando una forma di ipertensione arteriosa volume dipendente (a bassa renina) che secondo la ormai sconfessata teoria della slavery hypothesis, avrebbe avuto origine dagli schiavi che sopravvissero alla deprivazione di cibo ed acqua ed alla dissenteria durante i viaggi dall’Africa al continente americano fra il XVI ed il XIX secolo, proprio in virtù di questa predisposizione alla sodio-ritenzione.
Le influenze geniche possono essere responsabili, oltre che della diversa sensibilità al sodio, anche della diversa reattività neurovegetativa tra neri e caucasici, tanto da ottenere una maggior riduzione dei valori pressori in risposta sia alla restrizione sodica, sia alla terapia con diuretici o con Calcio Antagonisti, per la loro attività vasodilatatoria e natriuretica. Pertanto, questi farmaci risultano essere il trattamento ottimale del paziente afro-americano con ipertensione, mentre i farmaci bloccanti il SRA (ACE-inibitori, Sartani) ed i β bloccanti in monoterapia, risultano meno efficaci in tale popolazione, diversamente rispetto a ciò che accade nella nostra etnia caucasica, in cui è prevalente una ipertensione arteriosa vasocostrittiva (ad alta renina) e per la quale la terapia elettiva è invece data proprio da questi ultimi.
Si evince dunque che per razze diverse l’approccio farmacologico dovrà essere mirato, considerato che, se nell’adulto bianco un incremento di 20 mmHg della pressione arteriosa sistolica (PAS) raddoppia il rischio di eventi cardiovascolari, negli ipertesi sodio-sensibili tale rischio risulta addirittura triplicato, così come l’incidenza di stroke emorragici più gravi risulta doppia rispetto alla popolazione caucasica. I neri invece, a tutti i livelli di occupazione e di stato socio-economico, sono più frequentemente colpiti dall’ictus con una più alta mortalità. Anche il progressivo danno renale sino allo stadio terminale, quale complicanza dell’ipertensione, risulta essere sproporzionalmente più elevata nella razza dei neri ipertesi. A peggiorare tale predisposizione si è osservato come il beneficio dell’healthy migrant effect – situazione per la quale, inaspettatamente, la maggioranza degli immigrati di prima generazione gode di ottima salute – si perda dopo la rapida assimilazione degli stili di vita e di alimentazione del paese ospite. Tale paradosso, determinato da un aumentato apporto di grassi, un ridotto apporto di fibre ed una maggiore sedentarietà, esita inevitabilmente nello sviluppo di obesità e diabete con conseguente sconcertante aumento della mortalità, che diviene ancora più evidente negli immigrati di seconda generazione.
Tali condizioni predisponenti, associate ad un ridotto accesso ai servizi sanitari e contestualmente alla scarsa aderenza alle terapie prescritte, espongono la popolazione di razza nera ad un rischio estremamente grave di malattie cardio cerebro vascolari croniche come lo scompenso cardiaco, la vasculopatia cerebrale o l’insufficienza renale. È pertanto prevedibile che tali patologie aumenteranno in maniera esponenziale e proporzionale al tempo di permanenza degli immigrati di prima ed ancor di più seconda generazione, maggiormente esposti alla progressiva acculturazione e con la tendenza a sviluppare diabete ed obesità ancor più precocemente. Ciò, inevitabilmente, produrrà un aumento della morbilità e mortalità con un impressionante incremento della spesa sanitaria.
Mentre la politica cavalca il problema e l’opinione pubblica si interroga, la gestione della salute dei migranti ormai stanziali ricadrà sulla classe medica, che, anche e soprattutto a tutela della sanità pubblica, dovrà attuare programmi di prevenzione e di cura finalizzati a ridurre la morbilità delle malattie cardio cerebro vascolari, che non in Africa, ma nei paesi Occidentali, uccidono più delle guerre.