Cos’è la Neuroestetica? (parte III)
di Alfredo La Cara
Nell’ambito degli studi di neuroestetica sono suggeriti degli esempi che ci consentono di capire in modo efficace come l’artista si approcci al reale e quanto la dimensione del reale sia anche figlia del suo stato d’animo.
Il primo è quello relativo a Mark Rothko, il quale nel 1959 scrive «il quadro non è una rappresentazione dell’esperienza ma è l’esperienza». Rothko nasce in Lettonia ma espatria negli Stati Uniti nel 1913 a causa delle tensioni che cominciano ad affollarsi in Europa, e dopo un periodo artistico di contenuto mitologico, si dedica a una dimensione pittorica che sia in grado di comunicare emozioni. «Il dipinto non può vivere nell’isolamento. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore sensibile per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo il dipinto muore» (Rothko, Scritti, 2002).
Figura 01
Guardando la produzione di Rothko dal 1949 al 1969 (Figura 01) possiamo capire molto della malattia che affliggeva l’autore e che lo portò, la mattina del 25 febbraio 1970, al suicidio. Il nostro modo di dire: «vedo tutto nero, oggi è una giornata grigia», non sono solamente l’espressione di stato d’animo, ma anche la risultante di un modo diverso di percepire gli stimoli.
Un gruppo di ricercatori canadesi guidato da Helen Mayberg ha effettuato una ricerca utilizzando la PET e la fRMI in fase diagnostica su pazienti depressi farmaco resistenti. Il trattamento tramite DBS (Deep Brain Stimultion) dell’area del giro del cingolo CG25. La DBS è una tecnica di stimolazione chirurgica del Nucleo subtalamico di Luys e di altri nuclei nella malattia di Parkinson quando, dopo molti anni, L-dopa e i dopaminoagonisti non risultano più efficaci. Grazie ad una tecnica di stimolazione analoga, impiantando degli elettrodi nell’area CG25, gli autori canadesi sono riusciti a far regredire la malattia nei pazienti depressi, a migliorare la loro qualità di vita e a far ritrovare loro una percezione dei colori attinente alla realtà.
Altro autore a cui far riferimento è Vincent Van Gogh. Nato in Olanda nel 1853, si suppone che subì una lesione cerebrale in epoca perinatale o neonatale, ma non esiste in proposito una documentazione certa. Comunque soffrì di epilessia del lobo temporale (TLE). Sembra che l’autore, oltre alla lesione subita alla nascita, fosse solito assumere assenzio, una bevanda tossica molto in uso negli artisti dell’epoca. È stata avanzata anche l’ipotesi che il pittore potesse soffrire di intossicazione da digitale, un farmaco usato all’epoca per curare l’epilessia e sempre secondo questa ipotesi proprio l’intossicazione subita da questa sostanza influì sulle sue scelte cromatiche in ambito pittorico. L’ossessione per i toni gialli e verdi, la presenza di aloni intorno agli oggetti, sono stati interpretati come segni da intossicazione dalla digitale.
Pur presentando disturbi a carico del tono dell’umore e del comportamento, l’artista era sconvolto dalla sua malattia e dall’imprevedibilità dei correlati episodi critici, che era convinto lo avrebbero portato al decesso. Numerosi sono i quadri che lasciano spazio all’interpretazione, a riflessioni sull’ossessività dei suoi colori e dei suoi tratti pittorici, ma solitamente si fa riferimento al Campo di grano con volo di corvi (1890). Qui trova sostanza il discorso cui si accennava all’inizio dell’articolo, ovvero la proiezione del proprio stato d’animo sulla realtà. Il cielo è di un colore blu carico, a simboleggiare il turbamento interiore che si trasmette alla natura. Al di sotto di un confine netto, sta il campo di grano. A differenza che in altri quadri dello stesso autore – uno su tutti, Campo di papaveri (1889) – questo campo di grano non trasmette la serenità della campagna, poiché ‘ferito’ da una strada che va verso il nulla. Una strada ‘obbligata’, che porta alla fine della coscienza, e quindi verso la morte, rappresentata simbolicamente dai corvi. Ci troviamo di fronte a una pittura materica in cui la densità del colore sembra corrispondere a stati d’animo profondamente alterati. È un quadro, questo, che rappresenta per Van Gogh il testamento spirituale: si toglierà la vita proprio nel 1890.
La conclusione di questo articolo è dedicata ad alcune riflessioni sull’arte contemporanea. Nell’orizzonte della storia di inizio ‘900 accade qualcosa di straordinario. A seguito del verificarsi di determinati eventi, maturano delle convinzioni, delle teorie, che solleticano il fiuto degli artisti. In particolare: tra il 1859 ed il 1869, Darwin formula la teoria evoluzionistica delle specie animali; nel 1901, Sigmund Freud – allievo di Charcot alla Salpetriere – pubblica L’interpretazione dei sogni e squarcia il velo sull’inconscio; nel 1915, Albert Einstein formula la teoria sulla relatività.
Nell’arte avvenne un vero e proprio ‘cambiamento di paradigma’. Siamo nell’anno 1917 quando negli Stati Uniti viene creata la Society of Indipendent Artists. Marcel Duchamp faceva parte del direttivo di questa società. Alla mostra organizzata dall’associazione poteva partecipare chiunque avesse da proporre due opere, e previo pagamento di sei dollari. Duchamp partecipò in incognito con l’opera Fontana. Si trattava di un orinatoio firmato con lo pseudonimo ‘R. Mutt’. Nasceva cosi il ready-made. Sulla rivista ‘The Blind man’ lo stesso Duchamp, fingendo di difendere l’ignoto autore, scrisse: «Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista, ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto». Insomma, Duchamp crea una sorta di provocazione con la quale conduce, obbliga l’osservatore a ‘pensare’. Ciò è ancor più evidente ne La Joconde (1919).
Figura 03 – Marcel Duchamp, Fontana, 1917
Figura 04 – Marcel Duchamp, La Joconde, 1919
Scriverà Benito Oliva, ancora sul ready-made: «L’oggetto bello e fatto, riconosciuto prelevato e spiazzato dalla sua funzione corrente per essere immesso in un campo di intensità, che è quello dell’arte. L’objet trouvè acquista uno statuto altro mediante il gesto di cleptomania mentale eseguito dallo artista che utilizza l’oggetto quotidiano per una pratica tutt’altro che quotidiana, quella dell’immaginario» (Bonito Oliva).
L’arte contemporanea, dunque, esalta il ruolo dell’osservatore, facendoci capire quanta parte attiva svolga il sistema nervoso non solo nella percezione dell’opera, ma anche nel completamento del processo creativo. Possiamo ben dire che esiste una sorta di trittico contemporaneo: artista, opera, pubblico. Qui di seguito vengono riportate alcune frasi tratte da interviste a Duchamp.
«A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente»
«Di fatto fino a cento anni fa tutta la pittura era stata letteraria o religiosa: era stata tutta al servizio della mente».
«La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva».
«Gli ultimi cento anni sono stati retinici. Sono stati retinici perfino i cubisti. I surrealisti hanno tentato di liberarsi da questo e anche i dadaisti, da principio».
«Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare».
Abbiamo visto i meccanismi elementari del processo di visione, i processi di astrazione messi in essere dalla corteccia cerebrale, la costanza percettiva e la costanza cromatica, il concetto ereditario di colore, i percorsi dall’esterno verso l’interno e dal nostro cervello verso la realtà nel processo creativo dell’opera d’arte e nella comprensione della medesima. Abbiamo esaminato le strategie che l’artista utilizza, gli interrogativi che l’opera d’arte ci pone, il gioco tra stimoli costanti e stimoli ambigui. Abbiamo ancora visto attraverso scarni esempi come l’artista fa parlare le proprie opere e l’importanza e la suggestione dell’autoritratto, ma alla fine, anche grazie alle esperienze dell’arte contemporanea, non siamo solo emozionati o emozionabili, ma attraverso l’arte siamo spinti, sempre di più, a pensare.