Il dott. Sòcrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira
Medici… per altro famosi
di Marco Semprini
L’inizio del campionato di calcio 1984/85 era pieno di aspettative per i tifosi viola per l’arrivo a Firenze di ‘O calcanar che a bola pediu a Deu’ (letteralmente: il colpo di tacco che la palla chiese a Dio), l’acquisto che fece vivere ai tifosi il classico sogno estivo di trionfi e Scudetto, poi trasformato in una delle più grandi delusioni subite dalla Fiorentina nella sua storia. In effetti le credenziali del neoacquisto erano di prim’ordine: piedi raffinati, apprezzabile propensione al gol, ottima visione di gioco, 3 titoli del campionato paulista con il Corinthians e titolare fisso di quella nazionale ‘verdeoro’ ritenuta da molti come la più forte compagine brasiliana di tutti i tempi (quella per intenderci dove giocava gente come Zico, Falcao e Cerezo). Quello che i tifosi non potevano sapere era che il ‘Dottore’ (soprannome legato alla Laurea in Medicina che arricchiva il suo già ricco curriculum) non aveva la benché minima voglia di sbattersi e sudare dietro un pallone, come si sarebbe potuto profeticamente intuire dalle sue prime parole da giocatore viola appena giunto all’Aeroporto di Fiumicino: «Non tengo tanto a essere un campione di calcio quanto uomo democratico, anzi un brasiliano democratico», come a voler dire: ‘non vengo qui per lottare su ogni pallone con il coltello fra i denti, ma giocando a modo mio, ai miei ritmi’. Non a caso, alla fine della sua esperienza italiana dirà che «Da quel che ho visto, la società più adatta a me sarebbe stata la Cremonese: non è una battuta, è simpatia per un ambiente».
Figura complessa e affascinante del calcio paulista, Sòcrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti Sòcrates, nasce il 19 febbraio del 1954 a Belèm nello stato del Parà, da una famiglia molto modesta di origine cristiana maronita, fuggita dalla Terra Santa in seguito al bombardamento del proprio villaggio di origine. Primo di sei figli, frequenta il locale liceo per poi iscriversi all’università di San Paolo. Il padre Raimundo, autodidatta che legge Platone ed ama la cultura, attraverso un duro lavoro ed enormi sacrifici riesce a pagargli gli studi fino alla laurea in medicina, titolo che, oltre a dargli il soprannome di ‘Dottore’, sarà per lui la via maestra dell’emancipazione sociale.
Questo aspetto – l’importanza della lettura e dello studio – influenzerà molto il dottore-calciatore, come ben descrive il sociologo Pippo Russo nel saggio a lui dedicato dal titolo ‘Sòcrates. L’irregolare del pallone’. Scrive l’autore: «Educato dal padre al culto del sapere, egli cresce nel rispetto di una scala di valori inderogabile. La cultura viene prima di ogni cosa e di conseguenza bisogna assegnare il primato al lavoro che viene al termine di un percorso di studi». Come calciatore muove i primi passi della sua carriera nel Botafogo di Ribeirão, squadra della città in cui la sua famiglia si trasferisce in seguito alla sua nascita. Nonostante la sua statura imponente, 192 cm di altezza per 80 kg, si fa notare per la sua grande visione di gioco, l’abilità nel palleggio e negli inserimenti, il tiro potente ed estremamente preciso e per una particolarità: gli piace colpire il pallone con il tacco e lo fa in un modo eccezionale. Ma per lui il calcio è un hobby: la sua vita era lo studio. Tutti si accorgevano che in campo era fortissimo, e i guadagni erano sempre più discreti, ma lui stabilì un accordo con i dirigenti del club: «Se mi mettete in prima squadra, al massimo posso venire in ritiro il giorno prima». E questo fu, e alla domanda sul perché i dirigenti accettarono, la risposta è stata: «era fortissimo». E così riuscì a laurearsi, indirizzo pediatrico, mentre giocava. Nel 1978 viene ingaggiato dal Corinthians, la squadra che vanta il maggior numero di tifosi in Brasile, con la quale scende in campo per ben 297 volte, segnando 172 reti. Diventato capitano del Timao e della Nazionale brasiliana, Socrates viene ricordato soprattutto per essere stato il leader in campo e fuori della squadra paulista. Nel Corinthians aveva infatti instaurato un regime passato alla storia come ‘Democracia Corinthiana’. In Brasile, in quel momento, c’è un forte dibattito, il Paese vuole uscire dalla dittatura. Sòcrates e compagni indicano la loro strada, da calciatori: le decisioni non verranno più calate dall’alto, verranno assunte collettivamente. Così negli spogliatoi si svolgono assemblee, si discute, si vota e insieme, in modo democratico, giocatori e staff tecnico (il direttore sportivo, Monteriro Alves, è un sociologo…) delineano la rotta da seguire mandando all’occorrenza in ritiro l’allenatore (e talvolta anche a quel paese!). Questo meccanismo si estende sempre di più, fino a includere orari e metodi d’allenamento, acquisti, politica economica del club che parteciperà collettivamente anche alle iniziative contro la dittatura. Tradizionalmente considerato un mezzo di spoliticizzazione delle masse, attraverso l’esperienza della sua Democrazia, Sòcrates dimostrò a tutto il globo l’esatto contrario, facendo del calcio uno strumento di trasmissione di valori democratici, sia in campo che nel modo di gestire la squadra, oltre che un formidabile veicolo per reclamare diritti e libertà, (utilizzato, in questo caso, per combattere la dittatura dei colonnelli).
Fino al 1984, malgrado fosse all’apice della carriera, Sòcrates rifiutò ogni offerta per partecipare attivamente alla campagna politica per buttare giù la dittatura: quando la battaglia terminò, purtroppo con una sconfitta, Sòcrates decise di andar via, anche perché così aveva promesso. Arrivò così in Italia, a Firenze, fortemente attratto dalla storia della città e dalle opere d’arte che ospita, ma anche per la forte volontà dell’allora DS viola Tito Corsi, che aveva puntato al nome ed alla fama pregressa del calciatore (fu difatti battuto il record di abbonamenti, più di 27.000). Per garantirsi le prestazioni del fuoriclasse brasiliano la Fiorentina versa nelle casse del Timao ben 5,3 miliardi di lire. Quando arrivò in Italia, nel 1984, Sòcrates era ormai un ex giocatore, nonostante avesse solo 30 anni e l’anno precedente premiato come miglior giocatore sudamericano: l’esperienza sportiva non fu esaltante, tutt’altro.
Tanto per cominciare la Fiorentina dell’epoca era divisa in due tronconi e lui si trovò nel mezzo, anche per il suo pensiero politico. In quella squadra c’era Passarella, il suo antagonista per definizione: argentino e di destra, anche lui rigorista e calciatore di punizioni. ‘O doutor da bola’ è un virtuoso nel colpo di tacco, fatto che lo rende quasi un’artista del pallone, tuttavia non riuscirà mai ad entrare in sintonia con la squadra, anche per l’eccessiva distanza tra il calcio italiano e il suo: spesso chiede di essere esentato dai ritiri e si lamenta in continuazione della preparazione atletica (dove in Italia c’era una grande attenzione, cosa che lui non concepiva). Una volta, durante il ritiro, attardato rispetto al gruppo che sgroppava in montagna, incontrò Antognoni e gli disse, sfinito: «Ma qua giocate con i campi in salita?». A volte invece partecipava all’allenamento mattutino, poi andava a riposarsi e si svegliava direttamente il giorno dopo, saltando la seduta pomeridiana e la cena. In campo raramente gioca all’altezza della propria fama, per lo più dando l’impressione di venire travolto, col suo incedere compassato, da eventi agonistici ed atletici di un altro pianeta. «Debbo dire in tutta onestà che avrei faticato in qualsiasi squadra», le sue parole durante un’intervista gli anni successivi. Il suo look da descamisados, le sempre incessanti chiacchiere sui problemi del mondo con la sigaretta in mano (fuma più di 20 sigarette al giorno), le abitudini di vita non esattamente da atleta (beve enormi quantità di birra) gli sarebbero state probabilmente perdonate se all’impegno civile avesse accompagnato quello sul campo: nella realtà il ‘dottore’ si rivela un personaggio scomodo, poco propenso a sacrificarsi in nome della maglia, che non riesce a divertire e soprattutto a far vincere la sua squadra. La permanenza alla Fiorentina sarà per una sola stagione, rispedito in Brasile, giocò ancora (poco) con Flamengo e Santos e ai Mondiali del 1986 contribuendo con un rigore sbagliato all’eliminazione della Seleção nei quarti contro la Francia. Dopo essersi ritirato nel 1988, torna nuovamente ad esercitare la professione di medico. Nella realtà visita quasi esclusivamente gli amici, tra i quali è noto con il soprannome di ‘O Bruxo’, lo stregone, per la capacità di fare diagnosi molto precise (ma anche perché gli piaceva fare delle profezie che molto spesso azzeccava…).
Eclettico, dotato di una forte ma complessa personalità, continua a studiare per specializzarsi in medicina sportiva e in giornalismo, partecipa a corsi per diventare allenatore, inizia la carriera di commentatore sportivo, oltre ad incidere un disco, fare l’impresario teatrale ed avvicinarsi alla politica. Nel Novembre del 2004 torna sorprendentemente in campo per un mese – ma solo per pochi minuti e in una sola gara – con il Garforth Town, dilettantistica squadra inglese di un paesino vicino Leeds, in Inghilterra, di cui fu anche allenatore con risultati quasi ridicoli: a 14 anni dal ritiro ormai di birra, in corpo, aveva solo quella delle sue adorate lattine. Tornato in Brasile passa il tempo tra interviste, ricordi, articoli e sbornie. Quando nel 2007 vennero assegnati al Brasile i mondiali del 2014, da buon ‘bruxo’ com’era, disse: «Non riesco a gioire, perché so come andrà: investiranno soldi per devastare il nostro territorio, senza ridistribuire la ricchezza». Morirà, a soli 57 anni, la mattina del 4 dicembre 2011, all’ospedale Albert Einstein di San Paolo, dopo il terzo ricovero d’urgenza in pochi mesi, a causa di una serie di complicanze legate alla cirrosi epatica di cui soffriva da anni, provocata dall’alcolismo. In quello stesso giorno il Corinthians batte il Palmeiras e si laurea campione nazionale, esattamente come il ‘Dottore’, calciatore, politico e stregone aveva previsto già nel 1983: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo», e così andò. Sócrates, medico per molte, troppe, cose per altro famoso.
Ho sempre fumato pur sapendo che fa male, così come amo bere birra.
Oggi come allora. Ma il calcio è uno sport collettivo e non serve che tutti corrano.
Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano.
Sòcrates