Illustri Gotte
di Andrea Marcheselli
“Uccide più la gente spiritosa che gli stupidi.”
Thomas Sydenham
Così Thomas Sydenham, padre della medicina inglese, malato di gotta, sottolineò la frequente associazione tra la ‘malattia dei papi e dei re’ e le persone con intelletto particolarmente brillante. Benchè già gli Egizi la considerassero esclusiva dei ricchi, la storia è piena di gottosi celebri, ed a conferma di ciò uno studio pubblicato sul Journal of Medical Genetics ha osservato che tra gli appartenenti al MENSA, il club dei super intelligenti con oltre il 98º percentile del QI, vi è un incremento statisticamente significativo di gotta, miopia ed autismo infantile. Potrebbe quindi non essere casuale che ad esserne affetti furono artisti come Leonardo, Michelangelo e Rubens; condottieri come Giulio Cesare ed Alessandro Magno; scienziati come Galileo, Newton e Darwin; letterati e filosofi come Ovidio, Leibniz, Lutero, Kant, Voltaire e Goethe. La curiosa analogia fra la formula di struttura della caffeina e quella dell’acido urico (una metilxantina) fa ipotizzare che un soggetto con livelli di uricemia relativamente elevati sia costantemente esposto ad un effetto neurostimolante simile a quello indotto proprio dal caffè.
Ma i danni cerebrali causati dalla cronica precipitazione di urati individuano un comportamento ambivalente del composto quando, con una eccessiva concentrazione ematica della uricemia, gli effetti nocivi superano quelli benefici. Questo doppio effetto dell’acido urico può essere invocato anche per l’evoluzione dei primati. Le scimmie e l’uomo hanno infatti livelli di uricemia più elevati rispetto alle altre specie animali, avendo perso nel corso di milioni di anni l’attività uricasica del fegato, deputata ad eliminare l’eccesso di acido urico mediante la trasformazione in un composto più solubile, l’allantoina. Tale mutazione enzimatica dimostra che un moderato aumento della concentrazione di acido urico ha rappresentato un fattore favorevole di sviluppo della specie, ha contribuito a far guadagnare la stazione eretta per il suo lieve effetto ipertensivo determinato dall’aumento del sodio ematico, ha conferito potere antiossidante e contribuito al metabolismo dei lipidi.
Inopinatamente però i livelli di acido urico sierico sono progressivamente aumentati nelle diverse ere in relazione alla disponibilità alimentare di cibi ricchi in purine ed alle modificate abitudini di vita, rendendo dannosi quei meccanismi fisiopatologici paleontologicamente benefici. La bassa solubilità dell’acido urico che viene raggiunta ad una concentrazione ematica di 6 mg/dl determina, oltre tale valore, la formazione di cristalli che possono precipitare nei vari tessuti con conseguente danno cronico. La gotta pertanto rappresenta la punta dell’iceberg di una patologia multiorganica coinvolgente cervello, cuore, arterie, rene, oltre che notoriamente l’apparato articolare. La relazione tra iperuricemia e mortalità cardiovascolare è ormai accertata da numerosi studi, considerandolo un fattore indipendente di rischio per gli effetti negativi sulla pressione arteriosa, sulla funzionalità dei reni e sul deterioramento cerebrale.
I meccanismi del danno da acido urico sono molteplici e complessi, e determinano la formazione di una grossa quantità di radicali che favoriscono l’ossidazione dell’endotelio rendendolo perciò più suscettibile all’aterosclerosi. Superando il livello di 6 milligrammi per decilitro si considera che, per ogni milligrammo di acido urico in più, esista un aumento del 26% degli eventi cardiovascolari, del 20% del pericolo di ictus e che triplichi lo sviluppo di diabete. Pertanto gli studi sperimentali suggeriscono che l’iperuricemia sia un fattore di rischio più temibile del colesterolo e che in questa valutazione il valore limite debba essere posto a 5,5 mg/dl, in quanto già a questi livelli la probabilità del danno aterosclerotico aumenta soprattutto negli ipertesi, ipercolesterolemici e diabetici. È stato inoltre dimostrato un aumento significativo del rischio di infarto miocardico in pazienti con iperuricemia cronica e deposito di urato ed un aumento del 100% del rischio di sviluppare una malattia coronarica, rispetto ai pazienti senza deposito di urato.
Nell’Health Professionals Follow-up Study i pazienti con una storia di iperuricemia cronica e deposito di urato avevano un rischio di mortalità per malattie cardiovascolari più elevato rispetto ai pazienti con storia di malattia coronarica. Inoltre questi pazienti avevano una probabilità maggiore di sviluppare la sindrome metabolica rispetto ai non gottosi. Quindi gli elevati livelli di uricemia non solo possono favorire l’insorgenza di una progressiva distruzione dell’integrità articolare e della normale funzionalità renale, ma rappresentano anche un fattore importante nel rischio cardiovascolare. La riduzione del livello uricemico è, pertanto, fondamentale.
Le migliorate condizioni sociali ed economiche hanno reso tale patologia democraticamente più popolare, conseguenza della incongrua alimentazione, della riduzione dell’attività fisica e del conseguente aumento di obesità, diabete mellito e sindrome metabolica. Le iperuricemie, sia primitive che secondarie, provengono dall’aumentata produzione di acido urico, dalla sua ridotta escrezione renale o da entrambe le condizioni. Dal metabolismo sia endogeno che esogeno delle purine si forma l’acido urico, la cui tappa finale della catena è regolata da un enzima, la xantina ossidasi, che catalizza la trasformazione dell’ipoxantina in xantina e da questa infine in acido urico.
Questo enzima è il target dell’azione dei due farmaci ipouricemizzanti:
1) l’allopurinolo, che agisce solo sulla forma ridotta della xantina ossidasi e che, escreto per via renale, necessita di adeguamento del dosaggio in caso di insufficienza;
2) il febuxostat, che agisce anche sulla forma ossidata dell’enzima, e – avendo un metabolismo sia renale che epatico – non richiede aggiustamenti posologici.
Il febuxostat mostrerebbe, oltre ad una maggiore efficacia, anche la capacità di ridurre i livelli di radicali liberi responsabili della ‘low grade inflammation’, che sono il substrato fisiopatologico del danno e della disfunzione endoteliale. Quindi la prima indicazione per ridurre l’iperuricemia è inibire la sintesi endogena di acido urico impiegando sostanze che vanno ad inibire la catena sintetica proprio a livello della tappa fondamentale della trasformazione della xantina in acido urico ad opera della xantina ossidasi. Anche altri farmaci con indicazioni diverse come gli ipotensivi losartan ed amlodipina, ipolipemizzanti come i fibrati e l’atorvastatina, gli estrogeni ed i progestinici, possiedono, quali effetti ancillari, la proprietà di inibire parzialmente la produzione di acido urico.
Altre cause di iperuricemia sono:
1) quella iatrogena, legata all’assunzione di diuretici, che aumentano il riassorbimento dell’acido urico a livello del tubolo renale;
2) quella determinata dal consumo di alimenti ricchi in purine come acciughe, aringhe, frattaglie, estratti di carne, cozze e sardine. Altri cibi con una limitata quantità di purine sono asparagi, fagioli secchi, cavolfiori, lenticchie, funghi, farina d’avena, piselli secchi, ostriche, spinaci, cereali, pesce e pollame.
Se è vero che nel passato, con altra situazione ambientale e differente alimentazione, la gotta ha permesso alla specie umana la sopravvivenza e la sua affermazione, le mutate condizioni di vita sembrano far di questa un killer silenzioso che attenta alla nostra salute, innescando le malattie metaboliche, cardiovascolari e degenerative!