Le origini del digitale
Digitale è uno degli aggettivi più usati di questo inizio di secolo assumendo un significato che evoca tecnologie informatiche e processi di innovazione. La ragione risiede anche nel fatto che ormai quest’aggettivo compare, più o meno con cognizione di causa, nella pianificazione strategica e politica di tutti quei paesi del mondo considerati avanzati con il duplice intento di migliorare la qualità della vita e di superare il divario (spesso indicato con il termine digital divide) tra chi padroneggia le nuove tecnologie e chi non riesce a tenerne il passo.
Ma digitale non è un neologismo. Se ci si attiene alla sua forma inglese, troviamo il termine digit nella letteratura risalente alla fine del XIV secolo, mentre l’aggettivo digital è presente a partire dal XVII secolo.
L’aggettivo ha la sua radice nel sostantivo maschile digitus della lingua latina ed indica tutto ciò che si può contare con le dita.
Dunque, la definizione di digitale riporta a tutto ciò che è espresso e, quindi comunicato, attraverso una sequenza finita di simboli tratti da un alfabeto finito.
In questa accezione, andando indietro nel tempo, si trovano radici talmente profonde nella storia dell’umanità che se ne possono rintracciare le origini nella preistoria. Questa sua peculiarità permette di recuperare un rapporto tra esseri umani e tecnologia in cui gli esseri umani guadagnano il primo posto e non soltanto per motivi etici, ma perché effettivamente è il posto che a loro compete quando si parla di digitale.
Si tratta di risalire all’origine della coscienza da parte dell’homo sapiens, cioè al processo di consapevolezza della propria esistenza e di quella di altri individui.
Con lo sviluppo della coscienza, risultato della selezione naturale la cui attivazione consente il funzionamento predominante della mente a scapito dell’istinto, inizia il processo di sviluppo del linguaggio che simboleggia in suoni codificati e riconosciuti, la conoscenza del mondo che l’organismo già possiede in forma di immagini.
Il linguaggio, attribuendo ai simboli un significato non ambiguo (semantica) e definendone delle regole di utilizzo (sintassi), permette la trasmissione della conoscenza attraverso le generazioni.
Il passo successivo è fondamentale: si tratta di fare segno, ossia della capacità di trasmettere l’informazione mediante la produzione di immagini che va oltre la comunicazione verbale. Nasce la comunicazione scritta che codifica in simboli grafici segni e fonemi. Con la scrittura si guadagna in durata e in disambiguazione, a scapito però della corretta espressione delle emozioni.
Leggendo non è infatti possibile conoscere lo stato d’animo che l’autore vuole trasmettere.
A parziale soluzione arrivano a supporto le rappresentazioni grafiche che pur essendo frutto di convenzioni, sono, di contro, condivise e riconosciute da tutti: sono standard de facto. In particolare, soprattutto con l’avvento dei social, ormai siamo avvezzi all’uso di emoticon e sappiamo ben distinguere un l’espressione
grazie :)) da grazie :((
Con la forma scritta le parole si trasformano in simboli concatenati che seguono regole sintattiche ben precise.
Ad esempio, possono essere scritte da destra verso sinistra, in una poesia possono dar vita a rime, se intercalate con segni di punteggiatura, permettono di fornire espressività, se accompagnate da disegni di fornire emotività. Ecco allora che l’Odissea, l’Iliade, la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, etc. assumono la loro connotazione digitale in quanto sequenza finita di caratteri appartenenti ad un alfabeto di riferimento e concatenati secondo regole sintattiche.
In pieno accordo con la impostazione sistemica della teoria della Complessità, il termine digitale permette di stabilire una forte relazione e interdisciplinarità tra le forme più espressive dell’umanità: la letteratura, la matematica, la musica e… l’informatica.
Tutte queste forme di espressione dell’arte e dell’intelligenza dell’uomo soggiacciono alla definizione di digitale.
Se usiamo il sistema dei ventisei simboli l’alfabeto, possiamo comporre scritture di inaudita espressione estetica e contenutistica.
Se ne usiamo uno costituito dai dieci simboli 0 – 9, possiamo costruire teorie in grado di descrivere la natura delle cose.
E ancora… se i simboli sono le sette note, possiamo comporre armonie e atmosfere in grado di simolare le corde dei ricordi e dei sentimenti.
In ogni caso, siamo protagonisti della costruzione immortale della nostra coscienza, storia e cultura.
È questo che rende l’uomo unico e diverso dagli animali: l’uomo ha conoscenze ed emozioni che tramite l’esperienza e la storia potrà tramandare a fini della sua certificazione ad una sopravvivenza migliore.
E in tutto questo che ruolo ha l’informatica che spesso si identifica erroneamente con il concetto di digitale? In questo caso i simboli sono solo due: lo 0 e l’1, e l’informazione trasportata si chiama bit.
Indubbiamente il sistema dei simboli utilizzato è molto ridotto, ma ricorrendo a regole, tra l’altro non sempre molto complicate, permette un’interpretazione e una codifica delle informazioni pressoché totale dell’ambiente che ci circonda.
Dati, suoni, video possono essere tutti oggetto del processo noto come digitalizzazione che trasforma la nostra conoscenza in sequenze di bit elaborabili, molto più in fretta che dal nostro cervello, dai computer.
Il concetto di digitale enucleato dal concetto riduzionistico di computer, così come descritto precedentemente, rappresenta ciò che unisce tutte le discipline che concorrono alla nostra evoluzione.
È così che il digitale si propone come sistema/processo imprescindibile dell’attuale concetto di Complessità, unica teoria in grado di esplorare la natura in modo olistico.
Cosa hanno in comune il microcosmo dei quanti e la struttura profonda dello spazio?
La ricerca scientifica ha cominciato a rispondere a questa domanda ponendosi un’altra domanda: Quant’è lunga la costa della Gran Bretagna? Per quanto possa sembrare una domanda alquanto banale la risposta non lo è affatto. Solo nella metà del XX secolo ha trovato un’interpretazione plausibile con la teoria dei frattali del matematico polacco Benoît Mandelbrot nel libro Les Objets Fractals: Forme, Hasard et Dimension. Qui Mandelbrot dimostrò che i frattali possono essere la chiave di lettura delle forme presenti in natura, dando il via a una particolare sezione della matematica che studia la teoria del caos e delle simmetrie tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
L’attuale approccio della ricerca scientifica è quello di dimostrare la coerenza e l’interdipendenza di teorie e scienze che originalmente nate in contesti storico, culturali e sociali diversi e affrontate in modo riduzionistico, evidenziano analogie, affinità nonché declinazioni diverse degli stessi aspetti scientifici.
È così che è cambiato il concetto di spazio e di tempo con la relatività di Einstein, è così che si è radicata la teoria dell’incertezza di Bohr (meccanica quantistica) a scapito di quella della certezza (meccanica newtoniana).
Sulla prima sono cresciute scienze quali la cosmologia, l’astronomia, lo studio delle onde gravitazionali e molto altro. La seconda è diventata pilastro della fisica atomica, di quella nucleare, dei buchi neri.
Due interpretazioni della natura che hanno permesso di raggiungere scoperte alla base del miglioramento della nostra vita e che contribuiscono al nostro star meglio.
Eppure, se analizzate criticamente, le due teorie non possono essere entrambe giuste, anche se entrambe hanno risultati giusti!
Viene in mente l’anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltato il primo il rabbino dice: hai ragione. Ascoltato il secondo dice hai ragione anche tu. Allora la moglie che orecchiava da un’altra stanza gli urla ma non possono avere ragione entrambi. E il rabbino: hai ragione anche tu, moglie saggia!
È questa la grande sfida: dirimere l’apparente contesa e trovare una sola risposta in grado di descrivere la realtà delle cose.
Nel grande scenario della scienza contemporanea ci sono molte cose che ancora non capiamo ma di cui abbiamo necessità di indagare per spiegarci la vita, il mondo, il nostro io.
In questo scenario ineludibile è lo studio del comportamento del nostro cervello, attuale campo di applicazione delle neuroscienze, e quello di algoritmi informatici deputati ad emularne il ragionamento per fare più in fretta e per analizzare quantità di dati altrimenti non interpretabili e sicuramente non correlabili.
Non è quindi azzardato pensare alla digitalizzazione come una conquista paragonabile a quella della rivoluzione industriale che ha origini lontane: la rivoluzione digitale è iniziata nella preistoria!