Subiaco
Cartoline dal passato
di Tertulliano Bonamoneta, Maria Antonietta Orlandi
È il più importante dei comuni della Valle dell’Aniene e fin dall’Antichità mèta di molti uomini illustri: imperatori, re, santi, uomini di stato, scrittori, pittori, nonché di viaggiatori.
La cittadina è costituita da un agglomerato di abitazioni, dominato dalla Rocca abbaziale. Seduce per la sua incomparabile bellezza paesaggistica, per le sue movimentate vicende storiche e per la ricchezza del patrimonio artistico.
La regione fu abitata prima dagli Equi e poi da Romani. Ben quattro dei nove acquedotti che fornivano acqua a Roma provenivano dalla zona del Sublacense: l’Acqua Marcia, la Claudia, l’Anio Vetus e l’Anio Novus. Per la ricchezza delle acque, per la dolcezza del clima, fu prescelta come luogo di villeggiatura anche dallo stesso Nerone che, nel 54 d.C., vi edificò una villa sontuosa di proporzioni grandiose, su tre laghi: i Simbruina stagna, da cui ebbe origine il nome di Subiaco (Sublaqueum, che tradotto significa ‘sotto il lago’ o ‘sotto i laghi’).
La vallata conobbe subito il Cristianesimo poiché al seguito di Nerone c’erano cristiani. Fu chiamata ‘Valle Santa’ poiché mèta di molti santi ed in particolare di san Benedetto che nella Valle edificò i suoi tredici monasteri, gettandovi le basi del suo Ordine, all’insegna dell’Ora et Labora.
Dal Medioevo all’unità d’Italia le vicende del paese furono legate a quelle dell’Abbazia di Santa Scolastica, che fra il XV e il XVI secolo fu soggetta agli abati commendatari, spesso in dissidio fra di loro, che purtroppo non fecero la fortuna di Subiaco.
Con Giovannangelo Braschi (poi Papa Pio VI), che mantenne la direzione dell’Abbazia, ricolmando il castello di numerosi favori e provvidenze, Subiaco fu elevato al rango di città.
La città nel 1944 subì gli orrori della Seconda Guerra Mondiale con pesanti bombardamenti, che distrussero il 76% delle abitazioni. Oggi si presenta ricostruita e fortunatamente il paesaggio circostante è rimasto quasi incontaminato.
La sagra
Sagra della trota, nel mese di settembre.
Il proverbio
Niàri Subbjacciàni mparadisu nascimo, sì, preché de sante e santi, puru se tu nun si de chistu avisu, pe via ne ncuntrimo proprio tanti. |
Noi Sublacensi nasciamo in paradiso, sì, perché di sante e santi, anche se non siamo credenti, per la via ne incontriamo proprio tantia |
Il pane
Il rito della preparazione e della cottura del pane, un tempo aveva nella donna massaia e fornaia, la sua sacerdotessa ed il tempio nel forno del paese: il punto di ritrovo delle donne e la culla del pettegolezzo. La massaia, la sera, preparava l’impasto, perché, durante la notte, la cresciuta potesse lievitare nella giusta misura. La mattina seguente la massaia si alzava di buon’ora verso le tre o quattro del mattino per lavorare la cresciuta che, posta sulla spianatoia, veniva ammassata nuovamente. Poi si dava seguito al distacco delle pagnotte che sistemate nello scifone: (contenitore di legno), ricoperte di panni di lana riscaldati, la massaia incideva su ognuna di esse il segno della croce per riconoscenza verso la Divina Provvidenza e portate al forno per provvedere alla loro cottura. Tanta era la grande venerazione per il pane che, quando questo cadeva in terra era baciato e poi bruciato come cosa sacra.
La pagnotta non doveva esser mai messa sul tavolo con la parte arrotondata «per evitare sofferenze alle anime del Purgatorio». Tanto era prezioso che veniva usato con parsimonia e se ne doveva evitare lo spreco.
Il pancotto
Una delle tante soluzioni per meglio ottimizzare il pane raffermo era quella del pancotto: un piatto molto povero, un tempo indispensabile per la povera gente, segno di dignitosa miseria.
Ingredienti: acqua o brodo, olio d’oliva, erbe aromatiche, pomodoro, aglio, cipolla e sale.
Fate bollire acqua o brodo (circa un quarto di litro a persona) con il pane tagliato a dadini (meglio se abbrustolito); aggiungete olio d’oliva e erbe aromatiche fresche, pomodoro, aglio, cipolla e sale. Tenete sul fuoco finché il tutto sarà ben cotto e insaporito e servite bollente, spolverando con abbondante parmigiano.
Il ‘pappaciuccu’
È l’insieme della verdura non utilizzata e già condita (cavoli neri o cavolacci) e la pizza di granturco, fredda ed indurita, che l’ingegno delle nonne sa trasformare in ottima pietanza. In mancanza della pizza di granturco si può utilizzare anche il pane raffermo.
Ingredienti: cavoli neri, aglio, peperoncino, olio di oliva, farina gialla e sale.
Preparate in una padella olio caldo, unitevi la verdura e la pizza di granturco spezzata. Mescolate per bene e se necessario, aggiungete un po’ d’acqua. Tenetela sul fuoco per qualche minuto e servitela calda.